Il consumo di stupefacenti in Italia assunse le dimensioni di fenomeno di massa a partire dagli anni Settanta. Prima di analizzarne le caratteristiche e gli interventi delle istituzioni, è necessario ricostruire un quadro generale del periodo precedente, evidenziando la graduale espansione del consumo interno, le legislazioni adottate a contrastarne la diffusione e le rappresentazioni pubbliche dei consumatori.

Secondo di tre articoli. Leggi l’articolo 1.

La prima disciplina in materia di stupefacenti risale in Italia al Regio Decreto Legge 22.2.1922 n.355, che delegava il Governo ad emanare norme dirette a recepire quanto indicato nella Convenzione Internazionale dell’Aja del 1912. I motivi che avevano spinto le potenze vincitrici della prima guerra mondiale ad affrontare in termini proibizionisti la diffusione degli stupefacenti e ad imporne la ratifica a tutti gli Stati belligeranti, si ritrovano nella grande diffusione che gli oppiacei avevano avuto in Europa e in Nord America in larghe fasce di popolazione, attraverso forme e modalità differenti.

Sono indicative a questo riguardo alcune pagine de “La condizione della classe operaia” di Engels[1]. L’autore descrive l’abitudine di molte donne lavoratrici del Regno Unito di somministrare ai loro bambini una bibita a base di oppio e melassa commercializzata con il nome di “Godfrey’s Cordial”, allo scopo di renderli più tranquilli e nell’illusione di contribuire alla loro robustezza; i risultati ovviamente sono descritti come disastrosi, così come disastrosi erano gli effetti degli oppiacei sulla salute degli operai che avevano preso l’abitudine di fruirne come strumento di attenuazione della fatica e della fame.

Inoltre, l’industria farmaceutica ottocentesca commercializzava con successo una serie di narcotici ed analgesici, tra cui la morfina, che venivano prescritti per le patologie più disparate, dalla cura dell’alcolismo ai disturbi ginecologici e mestruali oltre che, naturalmente, per i disturbi nervosi. La legislazione proibizionista del primo dopoguerra era quindi indirizzata prioritariamente contro la diffusione di sostanze stupefacenti e contro il traffico illecito, mirata alla tutela della salute pubblica minacciata dalla presenza sul mercato di droghe tradizionali d’importazione e di nuovi preparati proposti dall’industria farmaceutica, sostanze ritenute pericolose se somministrate senza ricetta medica o da persone non autorizzate.

Mentre il consumo voluttuario di stupefacenti aveva una diffusione minore ma era ben presente nell’ immaginario pubblico. Esisteva, infatti, una lunga tradizione, risalente alla fine del Settecento, che legava indissolubilmente la creazione artistica ai “paradisi artificiali”.

Erano celebri i rapporti di Thomas de Quincey, Théophile Gautier e Charles Baudelaire con l’oppio e quelli dei circoli letterari della Parigi dell’ Ottocento con l’hashish, introdotto dal medico e saggista Moreau de Tours. [2]

Si aggiunga che la letteratura ottocentesca creò il topos della donna dedita alla morfina o all’etere come antidoto alle delusioni amorose o via di fuga da un’esistenza piatta e monotona[3].

Questa rappresentazione della donna era avvallata anche dalla letteratura medica del tempo, che narrava le donne come soggetti tendenti all’isterismo e alla nevrosi per costituzione[4]

In campo medico, la morfina, capace di creare forme di dipendenza che travalicassero l’impiego terapeutico, era molto usata per curare i disturbi della sfera genitale femminile. La morfinomania femminile era associata così alle donne borghesi, che potevano permettersi le cure, ma anche alle prostitute, per la frequenza con cui soffrivano di disturbi legati all’apparato sessuale, ed era un elemento usato spesso per dimostrare la presunta inadeguatezza delle donne a svolgere ruoli pubblici e politici. [5]

Nei primi anni del Novecento, la letteratura medica italiana, analizzata da Paolo Nencini, registrava alcuni casi di morfinomania, ma il fenomeno era numericamente molto limitato.[6]

Le principali attenzioni dei legislatori e dei medici italiani in tema di consumi voluttuari si convogliavano piuttosto sull’alcol e sulle forme di socializzazione connesse al consumo A partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, in Italia, l’alcol veniva considerato un problema sociale e sanitario.

Nel 1880, Cesare Lombroso pubblicò Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia, intorno al quale si sviluppò un dibattito tra medici, accademici, giuristi e politici sulle cause e sugli effetti del bere, ricorrendo appunto al concetto di «degenerazione».

Il neurologo francese Auguste Morel nel 1857, aveva sostenuto che nei folli, nei criminali e nei loro consanguinei era possibile individuare delle «stimmate della degenerazione», trasmesse per via ereditaria, che, a lungo andare, comportavano l’indebolimento della razza[7].

Secondo alcuni studiosi del periodo, come Morel, Lombroso e lo psichiatra svizzero Auguste Forel, tra le cause che potevano dare inizio a tale processo vi era anche il consumo di «veleni», ovvero alcol, oppio, hashish, segale cornuta, arsenico, fosforo.[8] Lombroso e la sua scuola di antropologia criminale, però, diversamente da Morel, ritennero che sul processo di degenerazione non influissero solo i fattori biologici, ma anche le condizioni sociali e ambientali di vita.

Più che un approccio di eugenetica “positiva”, tipico della scuola anglosassone, che proponeva il divieto di riproduzione dei soggetti ritenuti “degeneri”, Lombroso indicò allora l’adozione di misure di eugenetica “negativa”; consigliò, cioè, di lavorare per rallentare l’insorgere della degenerazione, realizzando riforme che migliorassero le condizioni igieniche e sociali – fermo restando il carattere ereditario e biologico del problema[9].

Lombroso e alcuni suoi allievi, come Enrico Ferri, Alfredo Niceforo e Guglielmo Ferrero, offrirono il loro contributo scientifico ai socialisti, impegnati nella lotta contro la diffusione dell’alcolismo tra gli operai. Alcuni esponenti di spicco tra i socialisti, quali Napoleone Colajanni e Filippo Turati, sostenevano che l’alcolismo e le altre patologie sociali erano da considerarsi unicamente un prodotto della miseria e delle condizioni sociali in cui vivevano gli operai a causa del sistema capitalistico. Il dibattito era comunque aperto e si registrarono diverse posizioni[10].

Lo storico Marco Gervasoni ha mostrato come la retorica della degenerazione in ambito socialista, a fine Ottocento, si articolasse intorno a tre topoi: quello sulla decadenza del corpo e sulle misere condizioni di vita operaia; quello sulla lotta di classe come conflitto tra «razze» (il meno diffuso); quello sulla degenerazione della borghesia.[11]

Occorre soffermarsi sul primo approccio, che condizionò gli interventi sull’alcolismo diffuso tra le masse popolari, e sull’ultimo, attraverso il quale i socialisti avrebbero interpretato le cause del consumo di stupefacenti della borghesia.

È necessario evidenziare questo doppio binario di lettura adottato dalla cultura politica socialista, che considerava l’alcolismo come un problema operaio sul quale intervenire per migliorare le condizioni di vita delle masse, mentre interpretava la dipendenza da stupefacenti come un segno di degenerazione borghese.

Questo pensiero, pur con le dovute evoluzioni, rimarrà a lungo e sarà al centro nel dibattito legislativo degli anni Cinquanta e si configurerà nella condanna verso l’uso di stupefacenti come prodotto del consumismo e del sistema capitalistico del decennio successivo.

Tornando al passaggio tra Ottocento e Novecento, le profonde trasformazioni in atto, legate all’unificazione, ai processi di industrializzazione e all’inurbamento di masse contadine verso le città, avevano cambiato anche le forme di socialità legate al bere. Le osterie, luogo di ritrovo per operai e proletari, nelle quali discutere di politica, erano guardate con sospetto dalla polizia ma, in parte, anche dal partito socialista, dopo che questo aveva organizzato le proprie sedi e strutture nelle quali svolgere l’attività politica. [12]

I timori sanitari e politici stimolarono l’interesse delle Camere sul tema. Nel 1910 Luigi Luzzatti, ministro dell’Interno e Presidente del Consiglio, propose un disegno di legge sull’alcol diviso in tre capi, atti a ridefinire le modalità di vendita al minuto, introdurre asili di cura per gli alcolizzati e stabilire nuove disposizioni penali.

Il secondo capo, quello dedicato alla cura che avrebbe previsto la creazione di appositi istituti per il ricovero e la cura degli alcolizzati abituali e pericolosi, fu espunto dal progetto approvato il 19 giugno del 1913 anche con i voti dei socialisti, nonostante diverse perplessità[13].

Il relatore della legge al Senato, Raffaele Garofalo, spiegò che era impossibile calcolare quanti asili di cura si sarebbero dovuti creare a tale scopo e non ritenne utile l’operazione, dato che per gli «alcolizzati divenuti dementi» provvedeva già la legge n.36 del 14 febbraio 1904, quella sui manicomi, alla quale era seguita l’approvazione di un regolamento attuativo qualche anno dopo (Regio decreto n.615 del 16 agosto 1909)[14].

La legislazione sui manicomi aveva stabilito il ricovero obbligatorio per gli alienati che rappresentavano «un pericolo per sé e per gli altri» o costituivano «pubblico scandalo», adottando una ratio che non si basava unicamente sulle esigenze curative del soggetto, bensì sul principio del mantenimento dell’ordine pubblico, con la conseguente separazione ed esclusione dalla società degli individui ritenuti pericolosi.[15] Il direttore del manicomio aveva la piena autorità sul servizio sanitario interno, ma la vigilanza sugli istituti spettava al Ministro dell’Interno e ai prefetti.

Le stesse procedure di ammissione e dimissione dei pazienti comportavano il coinvolgimento delle autorità di pubblica sicurezza e necessitavano, per essere effettive, della firma del procuratore del tribunale territorialmente competente. Tutti i provvedimenti di ricovero venivano trascritti nel casellario giudiziario, influendo sulla vita dei ricoverati anche dopo le loro dimissioni, dato che in questo modo diventava molto difficile il reinserimento sociale e lavorativo.

Al manicomio veniva affidato così un doppio mandato, di assistenza e controllo sociale: più che curare i ricoverati, esso doveva “difendere” la società “sana” dalla loro reale o presunta pericolosità, per la quale gli alienati rappresentavano un pericolo o costituivano pubblico scandalo.

In base a questi assunti, potevano essere quindi ricoverati non solo persone con effettive patologie mentali, ma tutti quei soggetti che mostravano pubblicamente comportamenti ritenuti socialmente o moralmente riprovevoli, aprendo quindi le sue porte anche agli alcolisti. [16]

L’ingresso in guerra dell’Italia nel 1915 cambiò l’approccio al tema. L’alcol era distribuito ai soldati nelle trincee mentre la morfina era usata per il trattamento dei feriti. Non vi è un’ampia storiografia in materia ma, in base a quanto è stato ricostruito finora, è comunque possibile affermare che la circolazione di stupefacenti fosse aumentata negli anni della guerra.[17]

Il dibattito relativo alle cause del consumo e alle categorie sociali maggiormente coinvolte dal fenomeno fu caratterizzato da diverse interpretazioni nel corso del primo dopoguerra.

Letteratura e opere scientifiche si occuparono della questione (con le dovute e ovvie differenze), oscillando tra una rappresentazione che legava il consumo ai reduci e una che l’associava agli ambienti civili che non avevano combattuto la guerra.

Il consumo di cocaina fu rappresentato in alcuni romanzi degli anni Venti, come Trillirì di Mario Carli (1922) e Cocaina di Pitigrilli, pseudonimo di Dino Segre (1921). Il primo romanzo, ambientato a Fiume durante l’occupazione della città – a cui Carli aveva partecipato – da parte dei legionari dannunziani, descrisse una familiarità con l’uso di cocaina, associata al dominio sessuale e al superomismo in un ambiente nazionalista e reduce dall’esperienza bellica[18].

Il romanzo di Pitigrilli era ambientato invece a Parigi: le vicende si svolgevano nell’ambiente artistico di Montmartre, descritto come un luogo di libertà ed erotismo, in grado di influenzare negativamente il protagonista fino a condurlo all’autodistruzione[19]

Rispetto alla letteratura medica, nel 1922, Carlo Felice Zanelli, docente presso la Clinica delle malattie nervose dell’Università di Roma, dedicò un intero capitolo del suo studio La voluttà dei veleni alle tossicomanie di guerra, sostenendo che il morfinismo si fosse diffuso tra gli ufficiali feriti, senza però indagare le condizioni dei soldati semplici[20]. Qualche anno prima, nel 1920, Vitige Tirelli, direttore del manicomio di Torino, aveva invece affermato, in base alla casistica a sua disposizione, che l’uso di stupefacenti (con particolare riferimento a cocaina e morfina) non provenisse dalle trincee ma dagli ambienti «viziosi» e «snob» cittadini. [21]

I socialisti, dal canto loro, sostennero che il consumo di cocaina si fosse diffuso nelle città e non al fronte[22], e, a guerra ancora in corso, ne attribuirono la responsabilità ai giovani borghesi delle grandi città industriali.

Partendo da un caso di cronaca, la chiusura del Mogol, un locale notturno di Torino, Antonio Gramsci, il 21 maggio 1918, scrisse su «L’Avanti!»: Il Mogol è stato chiuso per ordine del questore: nelle ore tarde della notte giovani vi si riunivano per inebriarsi con la cocaina. […] I giornali benpensanti hanno avuto una breve fuga di moralismo. Uno si è accorto che in Italia la cocainomania non è punita dalle leggi, e se ne preoccupa. […] Ohibò, non è la legge che farà scomparire il vizio. […] L’uso della cocaina è indice di progresso borghese: il capitalismo si evolve. Costruisce categorie di persone completamente irresponsabili, senza preoccupazioni per il domani, senza fastidi e scrupoli[23].

 Il 15 giugno 1921, il governo presentò al Senato un disegno di legge volto a riempire il vuoto normativo, dal titolo Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azioni stupefacente.

Fino a quel momento, le uniche sanzioni per la vendita a scopo non terapeutico provenivano dall’art. 320 del Codice Penale (30 giugno 1889, n.6133) e dall’art. 62 del testo unico delle leggi sanitarie (1 agosto 1907, n.636). Il primo sanzionava il venditore solo nel caso in cui non avesse avvisato l’acquirente della pericolosità della sostanza acquistata, prevedendo un’ammenda e una pena di reclusione fino a 6 mesi; il secondo sanzionava il farmacista, il droghiere o il fabbricante che vendeva i «veleni» senza osservare le formalità prescritte.

Il relatore della legge al Senato fu il medico Badaloni, che espresse forte preoccupazione per il diffondersi dell’uso di stupefacenti, soprattutto tra i giovani reduci, soggetti considerati originariamente immuni «da ogni labe degenerativa», la cui «resistenza nervosa» era stata compromessa dagli anni di guerra e sacrifici, che finivano perciò per rinunciare a tutte le gioie della vita «fuorché al veleno»[24].

Con la legge in esame si propose allora la creazione di una nuova figura di delitto, che non sanzionasse solo la vendita irregolare ma «il danno immediato, di natura eminentemente sociale» causato dalla circolazione degli stupefacenti.[25] Basandosi sul concetto di degenerazione, fu operata una distinzione tra spacciatore e consumatore. Questi ultimi erano considerati infatti «organismi minati da tare e da squilibri nervosi», dei «degenerati» che non potevano essere associati agli spacciatori, ai quali era riconosciuto invece la piena consapevolezza delle proprie azioni. Badaloni sostenne comunque la necessità di prevedere una pena detentiva anche per il consumatore, considerato l’unico modo per costringere il soggetto a entrare in un «trattamento di divezzamento»[26].

Il 5 agosto 1921, il provvedimento fu approvato al Senato e trasmesso alla Camera, dove però non fu discusso fino al 10 febbraio 1923, in un clima politico mutato dalla marcia su Roma. Durante il dibattito a Montecitorio, il neuropsichiatra e deputato socialista Ferdinando Cazzamalli insistette, invano, sulla necessità di creare strutture idonee alla riabilitazione dei tossicomani: Il progetto di legge non contempla la cura degli intossicati e non si cura di esaminarli nella loro figura di malati. Sarebbe stato opportuno introdurre delle norme a favore di questi disgraziati, cioè per il ripristino della loro salute per la loro redenzione morale e per il loro ritorno nei quadri della società. Nel progetto di legge si giunge alla soppressione della libertà, ma non è con qualche mese di carcere che l‟individuo malato può trovare un‟azione efficace contro la sua mania. Bisogna che l‟individuo venga ricoverato, inviato, cioè a ospedali psichiatrici, dove trovi la massima cura[27].

La discussione alla Camera fu molto veloce e la legge n.396 fu approvata il 18 febbraio 1923 nella versione licenziata dal Senato.[28]

Con la legge n. 396 del 18 febbraio 1923 l’Italia ratifica la Convenzione internazionale dell’Aja: gli elementi salienti erano la non punibilità dell’uso individuale e della detenzione di qualunque quantitativo ad esso finalizzato, e l’esiguità delle pene previste per il traffico e la distribuzione illecita.

Inoltre, comparve per la prima volta l’elenco delle sostanze ritenute stupefacenti, aggiornabili da parte dell’autorità amministrativa. Questo sistema del rinvio ad elenchi ad aggiornamento costante rimarrà, praticamente immutato nella forma, nella legislazione successiva, divenendo lo spartiacque legale tra le sostanze ritenute legalmente stupefacenti (e quindi proibite) e le altre.

La disciplina degli stupefacenti, negli anni successivi, conobbe una modificazione soprattutto per quanto riguarda la figura del consumatore: con il nuovo codice penale (regio decreto 19 ottobre 1930 n. 1398), con le nuove norme sugli stupefacenti, emanate in seguito della Convenzione di Ginevra del 13 luglio 1931 (regio decreto legge 15 gennaio 1934 n.151 convertito nella legge 7 giugno 1934 n. 1145) e con il testo unico delle leggi sanitarie ( regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265) la tossicodipendenza viene sempre più equiparata ad una malattia, ed il tossicomane ad un soggetto a cui applicare procedure di ricovero coatto, modellate sulla legge manicomiale del 1904. Cambiano gli obiettivi di fondo della regolazione: la tutela legislativa si sposta dalla preoccupazione per la salute psicofisica dei cittadini che veniva compromessa dalla diffusione di sostanze nocive anche da parte dell’industria, alla difesa della società dal presunto pericolo rappresentato da individui che, in base agli articoli dal 93 al 95 del codice penale, vengono ritenuti impunibili per i reati commessi sotto l’azione di sostanze stupefacenti e soggetti ad internamento in ospedale psichiatrico giudiziario.

Il fascismo inasprì le sanzioni in merito al consumo di stupefacenti, sottolineandone la pericolosità per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Il Testo Unico di pubblica sicurezza del 1926 definì gli intossicati da alcol o stupefacenti come individui socialmente pericolosi per sé e per gli altri, da trattare come gli alienati mentali pericolosi, disponendone l’internamento in manicomio e prevedendo, inoltre, l’obbligo di denuncia da parte dei medici[29].

Tra il 1934-1935, successivi decreti introdussero l’obbligo di denuncia da parte dei medici entro due giorni e la compilazione di una scheda relativa al paziente[30]. È importante sottolineare anche l‟uso strumentale che il fascismo fece del manicomio, sempre più sganciato da valutazioni di efficacia terapeutica, con il numero degli internati che passò dai 60mila del 1926 ai 96mila del 1941[31].

Furono rafforzati gli aspetti autoritari già presenti nel settore e fu esteso il concetto di «pericolosità sociale», in modo da includere sempre più categorie e da essere usato come strumento di reclusione per oppositori politici.[32]

Allo stesso tempo, e per ovvi motivi legati alla propaganda politica del fascismo, fu rifiutata qualunque ipotesi relativa all’origine della diffusione del consumo di stupefacenti come un fenomeno legato ai reduci della prima guerra mondiale.

La guerra, la fine del regime fascista, la nascita della Repubblica e la ricostruzione postbellica misero in secondo piano, dal punto di vista di politica interna, le questioni relative al traffico e al consumo di stupefacenti.

L’ Italia continuò a fare parte degli organismi internazionali interessati alla materia ma non aggiornò la normativa nazionale fino al 1954.

Prima di analizzare le dinamiche del consumo interno sviluppatesi nel dopoguerra e il relativo dibattito legislativo, occorre però soffermarsi sulla ricostruzione delle principali rotte del traffico internazionale e sulla posizione rivestita dall’Italia in queste reti, per poter poi comprendere lo sviluppo del mercato interno durante il secondo dopoguerra e le motivazioni alla base della futura normativa del 1954.

Daniele Onori


[1] F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma, Editori Riuniti, IV edizione, 1978, p. 154

[2] A. Castoldi, Il testo drogato. Letteratura e droga tra Ottocento e Novecento, Einaudi, Torino, 1994.

[3] S. Ziegler, Inventing the Addict: Drugs, Race, and Sexuality in Nineteenth-Century British and American Literature, University of Massachusetts Press, Amherst, 2008; M. Beer, Suicidio e inettitudine. Nota sui romanzi femminili italiani del ventennio 1880-1890, «Memoria», 2, 1981, pp.76-88. Un esempio di questo tipo di narrazione nella letteratura italiana era offerto dalla figura di Amalia in: I. Svevo, Senilità, Bompiani, Milano, 1988 [ed. or. 1898].

[4] B. Dijkstra, Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico, filosofico, letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Garzanti, Milano, 1988.

[5] Michael R. Aldrich, Historical Notes on Women Addicts, «Journal of Psychoactive Drugs», 26, 1994, pp. 61-64; Stephen R. Kandall, Women and Drug Addiction: A Historical Perspective, «Journal of Addictive Diseases», 29, 2010, pp.117-126.

[6] P. Nencini, La minaccia stupefacente, cit.,pp.89-108.

[7] Robert A. Nye, Crime, Madness and Politics in Modern France: The Medical Concept of National Decline, Princeton University Press, Princeton, 1984; D. Pick, Faces of Degeneration. A European Disorder 1848-1918, Cambridge University Press, Cambridge, 1989; R. Harris, Murders and Madness. Medicine, Law and Society in the Fin de Siécle, Clarendon Press, Oxford, 1989; Richard G. Olson, Science and Scientism in Nineteenth-Century Europe, University of Illinois Press, Urbana-Chicago, 2008.

[8] William F. Bynum, Alcoholism and Degeneration in 19th Century European Medicine and Psychiatry, «British Journal of Addiction», 79, 1984, pp.59-70

[9]  R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano, 1985; M. Gibson, Born to Crime. Cesare Lombroso and the Origin of Biological Criminology, Praeger, Westport, Conn.- London, 2002; L. Azara, L. Tedesco (a cura di), La donna delinquente e la prostituta. L’eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiane, Viella, Roma, 2019.

[10] A. Cottino, La questione sociale dell’alcol da Lombroso a Ferri, in AA.VV., L’alcol nella società. Scienza, cultura e controllo sociale, CELID, Torino, 1985; M. Gervasoni, «Cultura della degenerazione» tra socialismo e criminologia alla fine dell’Ottocento in Italia, «Studi Storici», 4, 1997, pp.1091-1099; M. Da Passano, Una legge liberticida? I «Provvedimenti per combattere l’alcoolismo» (1913), «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 2004, pp.93- 126

[11] M. Gervasoni, «Cultura della degenerazione» tra socialismo e criminologia alla fine dell’Ottocento in Italia, cit., pp.1113-1119

[12] M. Figurelli, L’alcol e la classe. Cenni per una storia dell’alcolismo in Italia, «Classe. Quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia», 15, 1978; R. Monteleone, Socialisti o «ciucialiter». Il partito socialista e il destino della osteria tra socialità e alcolismo, «Mondo operaio e socialista», 1985, pp.3-23; M. Malatesta, Il caffè e l’osteria, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp.53-66; S. Pivato, A. Tonelli, Italia vagabonda. Il tempo libero degli italiani dal melodramma alla pay-tv, Carocci, Roma, 2001, pp.45-53.

[13] A. Zerboglio, Contro l’alcolismo. Relazione al Congresso socialista, 6-10 ottobre 1910, «Critica Sociale», XX, 1910, pp.267-269, cit. in M. Da Passano, Una legge liberticida? I «Provvedimenti per combattere l’alcolismo» (1913), cit., p.101.

[14] ASS, Atti Parlamentari, leg. XXIII, sess. 1°, 26 maggio 1911, pp. 5272 ss, in Ivi, p.109

[15] F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento, in R. Romano, C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Vol.7. Malattia e medicina, Einaudi, Torino, 1984, pp.1058-1140; V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, Marsilio, Venezia, 2002.

[16] Valeria P. Babini, Curare la mente: dall’universo manicomiale al «paese di Basaglia», in C. Pogliano, F. Cassata (a cura di), Storia d’Italia. Vol.26. Scienze e cultura dell’Italia unita, 2011, pp.623-651.

[17] M. Banzola, Droghe di guerra. ‘‟ambiguo uso degli oppiacei dalle trincee al primo dopoguerra. Relazione presentata al Convegno «Dalla fine della Guerra alla nascita del fascismo. Un punto di vista regionale sulla crisi del primo dopoguerra (1918-1920)», Forlì, 16-17 novembre 2018; P. Nencini, La minaccia stupefacente, cit., pp.197-223.

[18] M. Carli, Trillirì, AGA, Milano, 2013 [ed. or. 1922]. Sull’esperienza fiumana: G. Comisso, Il porto dell’amore, Longanesi, Milano, 2011 [ed. or. 1924]; C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, il Mulino, Bologna, 2002. Per un inquadramento storiografico: R. Pupo, Fiume città di passione, Laterza, BariRoma, 2018.

[19] Pitrigrilli, Cocaina, Sonzogno, Milano, 1921.

[20] Carlo F. Zanelli, La voluttà dei veleni. Le insidie e i rimedi, Quintieri, Milano, 1922, cit. in P. Nencini, La minaccia stupefacente, cit., p.203. Zanelli aveva partecipato alla guerra in quanto ufficiale medico, era stato catturato durante la battaglia di Caporetto e aveva trascorso la prigionia ad assistere i prigionieri italiani nel campo di Lechfeld, Germania. Su questa esperienza aveva pubblicato il suo diario: Carlo F. Zanelli, L’anima del prigioniero, Mondadori, Milano, 1921.

[21] V. Tirelli, Morfina e cocaina, «Archivio di Antropologia Criminale, Psichiatrica e Medicina Legale», XL, 1920, pp.209-231

[22] Secondo il deputato socialista Ferdinando Cazzamalli: «questa epidemia, iniziatasi durante la guerra, non è sorta nelle trincee, ma invece essa si è iniziata alla periferia, nei grandi centri, ove i bagordi e i piaceri dilagavano anche quando i nostri giovani e io come medico con loro, erano a soffrire, a sopportare e a compiere il proprio dovere». Si veda: ASCD, Atti Parlamentari, leg. XXVI, sess. 1°, 10 febbraio 1923, p.8955, cit. in P. Nencini, La minaccia stupefacente, cit., p.211.

[23] A. Gramsci, Cocaina, «L’Avanti!», 21 maggio 1918, in A. Gramsci, Sotto la mole. 1916-1920, Einaudi, Torino, 1960, pp.398-400.

[24] ASS, Atti Parlamentari, leg. XXVI, sess. 1°, XIX tornata del 4 agosto 1921, Provvedimenti per la repressione e l’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente, p.405, in Ivi, p.216.

[25] ASS, Atti Parlamentari, leg. XXVI, sess. 1°, tornata del 15 giugno 1921 (1-A), Provvedimenti per la repressione e l’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente, relazione dell’Ufficio centrale esposta dal senatore Badaloni il 31 luglio, p.2, in Ivi, p.226

[26] ASS, Atti Parlamentari, leg. XXVI, sess. 1°, XIX tornata del 4 agosto 1921, Provvedimenti per la repressione e l’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente, p.404, in Ivi, p.229.

[27] ASCD, Atti Parlamentari, leg. XXVI, sess. 1°, 1° tornata del 10 febbraio 1923, p.8955, in Ivi, pp.229-230.

[28] Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente. Legge 18 febbraio 1923, n.396.

[29] Art.154 del Regio decreto n.1848 dell‟8 novembre 1926, successivamente coordinato con il nuovo codice penale (il codice Rocco) nel regio decreto n.773 del 18 giugno 1931 (artt.153).

[30] Art.156 del Testo Unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n.1265. La Sezione IV era dedicata al commercio di sostanze stupefacenti e ai provvedimenti per reprimerne gli abusi (art.148-160).

[31] P. Ianni, Cenni storici: dalla legge Giolitti alla legge Basaglia. Intervento al Convegno “40 anni dopo: riflessioni sulla legge 1 3 maggio 1978, n.180”, «Nomos. Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale», 1, 2019, pp.1-7.

[32] M. Petracci, I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Donzelli, Roma, 2014; A. De Bernardi, Psichiatria e potere nel fascismo italiano, «Italia Contemporanea», 287, 218, pp.156-174.

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