Giu 8, 2018
di Aldo Rocco Vitale
Lo scorso 30 maggio 2018, presso l’Università di Liverpool Sir James Munby, President of the family Division of the High Court and Head family justice for England and Wales, ha dichiarato non soltanto che è oramai finita l’epoca della famiglia classicamente intesa, ma altresì che tale fine è da accogliere positivamente e applaudire.[1]
Sir Munby ritiene, infatti, che bisogna accettare il fatto che in Inghilterra la famiglia assume oramai una varietà infinita di forme poiché vi sono matrimoni tra persone di fede non cristiana, persone che vivono insieme come coppie sposate o non sposate con altre persone dello stesso o di diverso sesso, bambini allevati da uno, due o anche tre genitori, sposati o non sposati che possono essere e non essere i loro genitori naturali, bambini con genitori di diversa fede, etnia o nazionalità, bambini di relazioni poligame, bambini allevati da genitori dello stesso sesso, concepiti tramite inseminazione artificiale con donatore di gameti o risultato degli accordi di maternità surrogata.
Tutto ciò, secondo il vertice della giurisdizione del diritto di famiglia inglese, deve essere visto di buon grado poiché, come già detto, segna il passaggio dalla fine dell’era della famiglia tradizionale all’era di una nuova concezione della famiglia.
Ovviamente, aggiunge, Sir James Munby, anche il diritto di famiglia deve necessariamente adeguarsi alle novità introdotte a livello sociale poiché, secondo tale visione, il diritto deve adattarsi alla realtà e con esso il ruolo dei giuristi come legislatori e giudici.
A corredo della notizia, fornita lo scorso 1 giugno dal quotidiano “The Telegraph”, vengono peraltro forniti due significativi grafici sull’andamento generale della legalizzazione delle unioni civili prima e dei matrimoni tra persone del medesimo sesso poi, e sui numeri (percentuali, andamento, costi, fasce di età prevalenti ecc ) dei divorzi in genere, la cui contrazione è strettamente interconnessa alla parallela diminuzione dei matrimoni che oramai da anni si registra.


Dall’analisi, seppur estremamente sintetica, di un simile scenario non possono che trarsi alcune riflessioni di carattere logico, giuridico ed etico.
Sul piano puramente logico si impongono tre considerazioni.
In primo luogo: se la famiglia è sostanzialmente morta, come trionfalmente annuncia Sir James Munby, non si comprende quale sia il motivo per cui debba ancora esistere il diritto di famiglia con le relative procedure, regole, e corti ad esso specificamente dedicate.
In secondo luogo: ritenere che tutto debba essere considerato famiglia poiché oramai non esiste e non può esistere una univoca concezione di famiglia, significa non soltanto che se tutto, cioè qualsiasi tipo di unione, è famiglia, nulla, cioè qualunque tipo di unione, è realmente famiglia, ma anche e soprattutto che se un tale paradigma fosse davvero applicabile anche ad altri ambiti del diritto l’intero ordinamento crollerebbe su se stesso.
Cosa accadrebbe, infatti, se una simile logica si dovesse ritenere applicabile da parte di certuni, per esempio, all’ambito penalistico? Perché punire il furto se molti rubano dimostrando di possedere una concezione “fluida” del diritto di proprietà? E se i furti fossero in aumento, dimostrando la crescente diffusione della prassi criminale a livello sociale, perché ostinarsi a punirli invece di accettare il fatto che oramai non possono più essere perseguiti in virtù di una accresciuta dinamica sociale in cui la proprietà non può più essere intesa e tutelata nel modo classico e tradizionale?
La fluidità della ratio giuridica e della natura degli istituti non è forse la causa diretta dell’attuale crisi generale del diritto che sta attraversando l’intera civiltà occidentale?
In terzo luogo: tra le righe del ragionamento di Sir James Munby, che pur fedelmente descrive la realtà, si intuisce, senza neanche eccessivi sforzi ermeneutici, che vi è un rapporto di proporzionalità diretta tra la diffusione di certe pratiche a livello sociale – come per esempio l’inseminazione artificiale eterologa o l’utero in affitto – e la desuetudine dell’istituto giuridico della famiglia naturale monogamica, a dimostrazione che i timori di coloro i quali hanno sempre denunciato i rischi di distruzione della famiglia in seguito alla legalizzazione di certe dinamiche sociali – come per esempio le unioni tra persone dello stesso sesso o quelle poligamiche – erano e sono più che reali e fondati.
Resta da comprendere, tuttavia, se la fine della famiglia sia un effetto naturale o artificiale, nel senso per cui occorre comprendere ancora se tali esiti si sono prodotti spontaneamente o se, invece, come sembra, siano stati espressamente provocati incoraggiando la diffusione delle predette pratiche d ingegneria sociale allo scopo precipuo di causare la fine della famiglia tradizionalmente intesa.
Sul piano giuridico, invece, si impongono due riflessioni.
In primo luogo: se il diritto in genere e il diritto di famiglia in particolare devono semplicemente limitarsi a recepire ciò che accade a livello sociale, proprio in virtù della complessità valoriale che nella società si registra, perché continuare a limitare altre pratiche pur altrettanto diffuse come, per esempio, la cosiddetta “unione intergenerazionale” (altrimenti nota come pedofilia), o anche la necrofilia o la zoofilia.
Del resto, proprio in quest’ottica, la sezione giovanile del partito liberale svedese ha recentemente chiesto la legalizzazione della necrofilia e dell’incesto come riportato dal quotidiano “The Independent” già nel febbraio 2016 (https://www.independent.co.uk/news/world/europe/incest-and-necrophilia-should-be-legal-youth-swedish-liberal-peoples-party-a6891476.html).
In secondo luogo: se si accetta il principio per cui il diritto altro non dev’essere che la mera formalizzazione ope legis aut ope judicis delle diverse istanze sociali che di volta in volta si vengono a determinare nel corso del tempo, si rischia di accettare altresì una prospettiva a-contenutistica e formalistica del diritto medesimo, prospettiva che conduce direttamente a pericolose derive già storicamente accertate, come, per esempio, nel caso delle cosiddette “leggi di Norimberga”.
In un simile scenario si estrinseca, dunque, il paradosso per cui vengono giuridificate pratiche che sussistono nonostante la propria costitutiva e virulenta carica anti-giuridista; il diritto, infatti, viene travolto e stravolto nella sua sostanza e fin’anche nella sua funzione paideutica, cioè quella funzione per cui non tutto ciò che si ritiene possa essere fatto può realmente essere fatto in quanto, talvolta, il diritto può e deve dire no, altrimenti inverandosi il monito di Albert Camus secondo cui «dire di sì a tutto implica che si dica sì all’omicidio».
Infine vengono in rilievo due appunti di carattere etico.
In primo luogo: accettare, come da più parti si auspica che si accetti in quanto ampiamente diffuso, il ragionamento di Sir James Munby, significa capovolgere ogni dimensione etica, poiché si transita dall’etos della normatività alla normatività dell’etos, cioè, detto in parole povere, dall’idea che esistano un bene e un male, un giusto e un ingiusto a cui la coscienza e l’azione umana devono conformarsi, all’idea che il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ritenuti in se stessi non esistenti, siano soltanto il prodotto della umana volontà.
Il problema non è secondario né trascurabile, perché segna il passaggio dal principio della libertà al principio dell’arbitrio assoluto, dall’etica della responsabilità all’etica del desiderio, dall’etica della comunità all’etica dell’individualismo, cioè, in definitiva, dall’etica della relazionalità all’etica dell’egoismo.
In secondo luogo: se l’istituto giuridico della famiglia è oramai estinto, occorre prendere atto anche delle conseguenze che da ciò discendono, cioè non soltanto della coeva fine della tradizione giuridica occidentale, ma anche della pensabilità stessa del legame politico che, onto-logicamente, sulla famiglia si costituisce.
Non a caso, sembra opportuno ricordare, la Costituzione italiana, per esempio, riconosce la famiglia come entità naturale pre-esistente all’ordinamento repubblicano dando testimonianza non soltanto della immodificabilità della struttura della famiglia secondo i modelli artificiali che oggi si vogliono affermare, ma anche che del legame socio-politico e giuridico italiano che sulla famiglia naturale esplicitamente si fonda.
In conclusione, la situazione grottesca in cui ci si trova e di cui tanto si compiace Sir James Munby, fa inevitabilmente sorgere i seguenti quesiti: se nel XX secolo la politica – così tanto dominata dagli influssi delle ideologie novecentesche – ha sottomesso e annientato il senso del diritto, non si rischia oggi, nel XXI secolo, di assistere al percorso inverso in cui il diritto – dominato da correnti ideologiche altrettanto pericolose – osa forse sottomettere e annientare il senso della politica cominciando proprio dalla tentazione di dichiarare morta la famiglia che ne è il presupposto? Si è ancora in tempo per invertire una simile tendenza o il tutto è oramai inevitabile?
La civiltà occidentale in genere e quella europea in particolare sono pronte a subire le nefaste conseguenze politiche, giuridiche ed etiche che da tutto ciò discenderanno?
[1] Il testo della relazione è reperibile presso il seguente sito internet: https://www.judiciary.uk/wp-content/uploads/2018/05/speech-by-pfd-what-is-family-law.pdf